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martedì 22 novembre 2016

Escursioni non per tutti 7 - Ambrella

Premessa: tra sogno...


L'Ambrella , localmente chiamata "Ambërla" o "Ambërlà",  toponimo la cui radice deriva da "bërla", cioè escremento di animale ( più precisamente di pecora o capra) è un alpeggio posto a quota 1609 m.s.l.m sulla sinistra idrografica della valle Orco , nella zona della Costa delle Fontane Fredde compresa tra l'arian dla Frera e l'arian dal Fè.  Questo luogo ha  fatto parte  del mio immaginario sin da bambino , un pò perchè frequentemente citato in famiglia ( i miei nonni paterni erano delle Mesonette e della Costa ), un pò per i racconti del mio nonno materno, che all'Ambrella aveva lavorato durante il regime fascista per la realizzazione di opere di sistemazione del versante e mi spiegava che da lì si poteva fare la traversata fino al vallone di Noaschetta, arrivando in quota  nei pressi dell'attuale rifugio omonimo.  Altro motivo di curiosità era senz'altro la vecchia cartina 1:50.000 dell'Igc, che dall'Ambrella faceva passare addirittura il Gta ( linea rossa continua); inoltre il Cai di Rivarolo molti anni fa aveva segnalato il percorso da S.Anna al vallone di Noaschetta. Insomma, apparentemente tutto facile: peccato che la realtà fosse ben diversa dalla mia confusa immaginazione di bambino. 

e realtà!

In primo luogo il Gta non passa da Ambrella ( nè mai ci è passato: grossolano errore cartografico) , ma dai Meinardi scende alla borgata Coste ; in secondo luogo il percorso segnalato dal Cai di Rivarolo raggiunge sì la Noaschetta bassa, ma passando in alto, cioè  dai Giua e da Piampurcetto per poi scollinare ( altro che traversata in quota). Inoltre gran parte della zona è stata ampiamente rimaneggiata nel corso degli anni da  movimenti franosi di notevole entità ; ciò non toglie che, come diceva mio nonno, da Meinardi si potesse arrivare a Noaschetta passando per l'Ambrella. Così l'anno scorso, tanto per cominciare,  mi sono deciso ad andare ad Ambrella, chiedendo  lumi all'amico Franco Chiapetto che ci era già stato : "beh, passi dalle Coste e dal Vailet ..." " no, io voglio traversare in piano dai Meinardi" "auguri". Prima di cominciare il racconto però credo sia giusto spendere due righe  sulle frane che interessano questa zona.


Le frane nella zona delle Fontane Fredde 

Ortofotocarta con catalogo frane - fare click per allargare (elaborazione M. Varda su cartografia Portale Cartografico Nazionale) -
Come si evince dalla cartina,il bacino del rio della Frera ( tratteggiato in azzurro) è interessato da deformazioni gravitative profonde di versante ( DGPV) sia sul versante di Ambrella ( contrassegnato con il n° 1) che su quello di Barrera -Meinardi ( contrassegnato con il n°2 - il movimento franoso non interessa però il versante fino a Meinardi, attestandosi in corrispondenza del piccolo bacino che scende su Giroldi; sono inoltre riportate ( colore rosso-rosa ) le due frane per crollo\ ribaltamento, ben  evidenti a chi osservi il versante sinistro idrografico percorrendo il fondovalle.
Ma che cos'è una frana ? Si tratta di un movimento di strati di terreno, classificato in base alla profondità degli strati interessati ( profondi e\o superficiali) , al tipo di materiale movimentato, al tipo di movimento, al grado di pericolosità.  
Le frane per crollo e ribaltamento interessano essenzialmente gli strati superficiali e volumi di roccia più contenuti, mentre le DGPV interessano strati profondi e grandi volumi di roccia, con movimenti lenti. I movimenti franosi sono sostanzialmente provocati dalla forza di gravità, ma possono venire accelerati\innescati dalla presenza di acqua, dalle escursioni termiche etc etc. I recenti eventi alluvionali del 2000 sono stati emblematici da questo punto di vista , con l'intensa attività che ha interessato i piccoli bacini del versante sinistro idrografico di questa parte della valle Orco, con trasporti di materiale detritico che hanno inghiaiato la ex statale 460 nei pressi delle località Frera, Nora e Giroldi , interessandone anche gli abitati. Particolarmente violenta in quell'occasione fu l'attività del rio Arianas, lungo il quale una colata di detrito ha causato l'asporto di circa 70 m di strada.
Ortofotocarta + Catalogo Frane + Igm 1:25.000 ( Elaborazione M. Varda su cartografia Portale Cartografico Nazionale) 
Per quanto riguarda queste zone, l'abitato più a rischio è certamente la frazione Fè, a monte della quale è stato infatti costruito un vallo paramassi; il pericolo dovuto alle frane ha inoltre portato all'abbandono del vecchio tracciato stradale, che da località Frera inferiore conduceva a Fè e posizionato ai piedi del versante, con la realizzazione della variante della Frera e la sistemazione della viabilità provvisoria a Fè.
Contrassegnata con il n°3 è visibile inoltre la DGPV di Perebella, che interessa l'abitato di Rosone vecchio , evacuato definitivamente nel 1956 assieme a Bertodasco e Grumel a seguito dei movimenti franosi del 1953, innescati da abbondanti precipitazioni. 
Naturalmente frane superficiali  e DGPV sono spesso  interconnesse , poichè  i movimenti profondi determinano sui versanti interessati condizioni favorevoli allo svilupparsi di fenomeni di crollo e ribaltamento, colate di fango e detrito, che possono essere più o meno pericolosi a seconda dei volumi di roccia e detrito  mobilitati, della vicinanza a nuclei abitati etc etc.  L'entità dei movimenti profondi è di altrettanto difficile previsione , mentre ancor più complesso è valutare l'esito di tali movimenti  : per quanto riguarda la frana di Perebella i modelli di rischio sviluppati dall'Arpa Piemonte vanno dalla caduta di isolati blocchi di roccia, fino a lambire Rosone Vecchio,   ad eventi catastrofici che possono interessare aree distanti anche km, come il concentrico di Locana.
Nei confronti di questi fenomeni naturali l'uomo ritorna piccolo piccolo poichè essi, specialmente quando causati unicamente da fattori naturali, sono inevitabili.  Tutto ciò che possiamo fare è cercare di  prevenire i danni a persone o cose, mediante la conoscenza del territorio, valutando le condizioni climatiche e tramite il monitoraggio dei movimenti rocciosi .
Chi volesse avere maggiori informazioni sulla frana di Perebella può trovare qui un esaustivo studio dell'Arpa Piemonte.


 Ambrella   da Meinardi  

Le Carbonere
Lasciata l'auto a Grusiner, nei pressi dell'ex scuola  elementare, imbocco il sentiero Gta che conduce dapprima alla frazione ( si può partire anche di qui) ,passa sopra alla Frera ( si può partire anche di qui) su ampia mulattiera, per poi raggiungere le borgate Carbonere e Coste, sempre su ottimo sentiero.  A Fè incontro un signore che mi chiede dove io sia diretto: "Ambrella"- rispondo -  "ah, lì si che prende bene il sole" replica lui - " ma si riesce ad andare da Ambrella a Noaschetta" - cerco di indagare mettendo un pò le mani avanti io - "si, a dov essi quai trasen " ( si deve esserci qualche "trasen") . Trasen ? Ma che cos'è un trasen ? Il trasen  in dialetto noaschino   è un passaggio in quota, una cengia,  sovente obbligato,  che mette in comunicazione due località vicine  altrimenti raggiungibili soltanto attraverso saliscendi notevoli ( magari tornando a fondovalle o salendo fino in cresta!) , che per gli abitanti delle montagne di allora costituivano un inutile spreco di tempo e di energie ( mentre per qualche appassionato di corsa  in montagna dei giorni nostri potrebbero essere un interessante occasione di allenamento). La non raggiungibilità in quota tra queste località vicine è dovuta, ça va sans dire, alla morfologia rocciosa ed accidentata del versante, caratterizzato dalla presenza di profondi canaloni , precipizi e salti di roccia vari.

L'etimologia del toponimo "Carbonere" lascia ben pochi dubbi circa la sua origine: con ogni probabilità qui erano presenti delle carbonaie, ove si produceva  carbone a partire dalla legna di castagno; anche il nome "Coste" è quasi sicuramente riferito alla posizione geografica, essendo tale borgata ubicata lungo un pendio.Di particolare interesse è l'osservazione laterale della  borgata Coste, con i suoi rustici abbarbicati lungo il pendio ed addossati l'uno all'altro per sottrarre meno superficie possibile al pascolo.
Le Coste di lato

 Paulin dle Coste

In questa borgata ha vissuto,  fino all'età di 80 anni, Paolo Ferrando, "Paulin dle Coste" , allevatore nato ad Ambrella nel 1930. Successivamente era sceso al Bettolino, continuando a salire alle Coste durante la stagione estiva;  è morto nel gennaio 2015 all'età di 84 anni.
Aveva un centinaio di capre ed alcune vacche, che durante l'estate portava a pascolare al Vailet ed all'Ambrella;  molto rinomate erano le sue tome ed il suo brus. 
Alle Coste Paulin ha abitato per molti anni da solo, poichè non ha mai abbandonato nè il suo mestiere nè i suoi luoghi natali per una vita più comoda ed agiata a fondovalle od in pianura, una scelta  in netta controtendenza con quella compiuta dal 99%  di coloro che abitavano queste borgate di "mezza montagna" ( come ad esempio i miei nonni paterni ) , dediti ad un'agricoltura ed ad un allevamento di sussistenza.
Con Paulin se n'è andato uno degli ultimi "veri" montanari, ossia quelli che dalle loro "bestie", dai loro terreni, dai loro castagneti da frutto, dai loro orti e dai loro boschi traevano di che vivere  e che abitavano tutto l'anno più o meno nella stessa zona, perchè lì erano i terreni di famiglia...

Il Gta Coste  - Meinardi


I percorsi evidenziati in rosso: continuo per il Gta, tratteggiati gli altri
Il sentiero attraversa il rio
Dalla borgata Coste il sentiero Gta, dopo aver aggirato sulla sinistra l'abitato, comincia a salire ripido nel bosco di castagni, fin nei pressi di un grosso masso ove svolta decisamente a destra ( da questo punto, in cui è  presente un minuscolo "crutin", parte anche il sentiero per  Vailet ed Ambrella) e comincia a salire ripidamente tra i noccioli sulla dx idrografica dello stretto canale inciso dal rio della Frera, per poi attraversarlo quando il ramo più occidentale di quest'ultimo cambia direzione svoltando decisamente a sinistra. Sulla sponda opposta il sentiero risale lungo uno stretto canale semiboscoso ( insomma lungo un "trasen") fino a  raggiungere un bel bosco di larici , superato il quale giunge nella zona denominata "Pian Fragno", una zona di "piagne" , cioè terrazzamenti nei  quali si faceva il fieno.  Che si tratti di un vero e proprio "trasen" non ci sono dubbi, visto che non ci sono altre possibilità di collegamento più veloci e comode  "in quota" tra le Coste e le borgate poste dall'altra parte del rio della Frera: le uniche altre alternative sarebbero scendere a fondovalle o salire fin sopra l'Ambrella.

 e risale lungo uno stretto canale semiboscoso
Da più parti mi è stato riferito che molti escursionisti si sono lamentati di questo tratto del Gta, che in effetti è davvero parecchio ripido e presenta alcuni tratti rocciosi ed abbastanza esposti: non è un percorso ideale da fare in caso di pioggia e\o con presenza di neve e ghiaccio. Ciononostante un tempo questo sentiero veniva percorso tutto l'anno e con una certa frequenza, magari trasportando dei carichi,  segno che doveva esserci qui un vero e proprio sentiero con scalini, piccole opere murarie di sostegno etc. Con questo voglio dire che segnalare e ripulire i sentieri dalla vegetazione è opera meritoria, ma  andrebbe associata  anche a lavori di ripristino, altrimenti il risultato è quello di avere un sentiero sì nuovamente percorribile, ma a tratti pericoloso da affrontare e questa cosa ha poco senso.
Da Pian Fragno in breve in piano e  su ampio percorso, dopo aver ricevuto a sinistra il sentiero proveniente dall'alpe Giva , si raggiunge la borgata Meinardi con il santuario di S. Anna: è bellissimo e bisogna assolutamente fare una veloce digressione per vederlo ( e poi chi vi garantisce di riuscire a traversare dai Meinardi ad Ambrella ?).

Il traverso Meinardi-Ambrella 

I segni rossi, seguendo i resti del vecchio percorso...
Dal Santuario occorre ritornare a Pian Fragno ;  ricevuto  il Gta si imbocca il sentiero che sale all'alpe Giva e lo si segue nel primo tratto in falsopiano, quindi lo si abbandona, proseguendo sempre in falsopiano per tracce in direzione della testata della valle Orco. Giunti praticamente alla fine della zona terrazzata,   si rinviene una traccia di sentiero  che comincia ad abbassarsi in direzione del canalone del rio della Frera , quindi si incontrano dei segni rossi che,  seguendo più o meno i resti  del vecchio percorso, conducevano con ogni probabilità fino all'ingresso di una finestra di ispezione della galleria in roccia Ceresole -Perebella  ( una di quelle non più utilizzate e da tempo crollate).
I segni rossi ci portano sul ciglio del profondo e ripido canalone inciso dal rio della Frera , ove finiscono.  Da questo punto in poi diventa impossibile reperire con continuità una vera e propria traccia di sentiero, poichè il versante, molto roccioso ed acclive, si presenta sin da subito ampiamente rimaneggiato da piccoli crolli e ribaltamenti di rocce e detriti. 


...portano sul ciglio del canalone
Il valloncello che si presenta dinanzi ai nostri occhi può sostanzialmente essere diviso in tre parti: una prima parte ed una terza parte più rocciose, caratterizzate dalla presenza di numerosi salti di roccia di varia altezza e da boschetti di larice ( uno con piante numerate sui tronchi - probabilmente risultato di vecchi nuclei di rimboschimento)  , ed una parte centrale essenzialmente detritica con copertura vegetale erbacea-cespugliosa, ma sempre molto ripida.  

Poco più in alto di me, il vecchio sentiero
Dopo alcuni tentativi riesco ad individuare un passaggio per iniziare a superare il primo tratto, abbassandomi leggermente e poi attraversando in quota nel bosco di larici. Poco più in alto rispetto a me a tratti ricompare il vecchio sentiero, ricavato "artificialmente" tra un'asperità rocciosa e l'altra ed oggi quasi ovunque crollato, tanto che le singole sezioni rimaste possono senza dubbio dirsi impraticabili.  Con un ultimo traverso verso ovest , la cui individuazione mi costa qualche faticoso saliscendi "di prova", sbuco nella seconda parte del valloncello. 
Siccome in quota e sopra di me il terreno si presenta molto ripido e con saltini di roccia, decido di tagliare la testa al toro e di abbassarmi di qualche decina di metri per andare a raggiungere una striscia di larici presso un punto visibilmente più comodo, in corrispondenza di una piccola dorsale.
La ( breve) discesa ardita e poi la risalita: risalgo quindi  lungo i larici , deciso a portarmi alla quota di Ambrella ma ecco che, sopresa , un piccolo canalino roccioso non visibile in precedenza mi costringe ad un nuovo stop. Ma non tutto il male viene per nuocere, perchè dal punto più elevato riesco ora a vedere bene il percorso da fare fino alle baite e così, dopo essermi abbassato per attraversare un altro canale in direzione della mia meta, risalgo ora decisamente dall'altra parte fino a portarmi sopra alcuni salti di roccia . Questo tratto del percorso è davvero infame, perchè si svolge su terreno detritico ripidissimo e piuttosto instabile,  che costringe talvolta ad aiutarsi con gli arbusti presenti in loco.
Sopra di me sono ben evidenti le opere di sistemazione del versante ( con ogni probabilità quelle a cui aveva lavorato il mio nonno materno ) realizzate durante l'epoca fascista ; ancora più in alto un piccolo bosco isolato di larici, quasi sicuramente il risultato di un rimboschimento.Arrivo così almeno un 40 metri sopra Ambrella, ma ormai il gioco è fatto ed ora finalmente mi muovo più agevolmente su un terreno facile.
L'alpeggio di Ambrella è costituito da tre nuclei di costruzioni posti più o meno alla stessa quota, a qualche centinaio di metri  l'uno dall'altro. Anche qui le costruzioni sono letteralmente "ammucchiate" le une sulle altre per non sprecare preziosa superficie di pascolo.
Ambrella 3 , il primo nucleo che si incontra traversando da Meinardi;  sullo sfondo da dx: monte Deserta,monte Unghiasse, monte Bessun.

La splendida cartolina di Ambrella 2 . Sullo sfondo da sx: Cima di Courmaon, Cuccagna, Testa del Gran Etret,  Denti del Broglio, Becca di Monciair ( coperta dalle nuvole).
E' davvero molto interessante osservarne la tipologia costruttiva: si intuisce la presenza di singoli  nuclei abitativi "unifamigliari" composti da  stalla, cavanna, fienile, piccolo letamaio e crutin
Una comoda mulattiera, oggi in gran parte invasa dalle ginestre, collegava in quota i tre nuclei.  Il colpo d'occhio di "Ambrella 2" , con lo sfondo del gruppo del Gran Paradiso,  da solo vale il biglietto e ripaga della fatica supplementare causata da un traverso molto ostico; da Ambrella 1 si ha inoltre uno splendido punto di vista sul Ciarforon.
Ambrella 1 , la prima che si incontra salendo dal Vailet- vista verso il fondovalle. 

La difesa dal dissesto idrogeologico durante l'epoca fascista...ed oggi ? 

Ad essere onesti, diamo a Cesare quel che è di Cesare, la difesa dal dissesto idrogeologico  nasce durante il primo periodo del regime fascista,con l'introduzione del vincolo per scopi idrogeologici ed il vincolo per altri scopi  con il regio decreto n°3267 del 1923 ed è rimasta sostanzialmente intatta sino ai giorni nostri. Va detto che lo Stato fascista si ritrovò a fronteggiare una situazione estremamente grave, in special mondo nei territori montani : si era infatti da poco raggiunto il  
Opere di consolidamento del versante e rimboschimenti presso Ambrella
massimo livello di pressione antropica, legato alla cd. "economia del castagno".   Rustici ed alpeggi erano stati realizzati anche nelle zone più ripide e svantaggiate, realizzazione che comportava la "trasformazione di boschi in pascoli" e dei "terreni saldi" in terreni  "sottoposti a periodica lavorazione"; dal  1923 in poi (art. 8 ) tali trasformazioni, per i terreni soggetti a vincolo, saranno soggette ad autorizzazione forestale, così chiamata perchè rilasciata dall'amministrazione forestale, incarnata ai tempi dal  Corpo Forestale dello Stato  ed oggi dal settore foreste delle Regioni. Praticamente tutte le aree boscate vennero sottoposte a vincolo e per le aree a rischio vennero disposti rimboschimenti ed una più rigorosa regolamentazione del pascolo: un altro dei gravi problemi che minacciavano la rinnovazione dei boschi e la stabilità dei suoli era infatti l'eccessiva pressione di pascolo esercitata in molte zone. Il vincolo per altri scopi ( art. 17) prevedeva l'imposizione di limiti di utilizzazione per i boschi di protezione da frane, valanghe etc etc.  Nei rimboschimenti venivano impiegati anche i bambini delle scuole elementari locali ( e, stando ai racconti dello zio di mio padre, anche lui originario di Mesonette, lo trovavano divertentissimo).
Praticamente una situazione completamente opposta a quella che viviamo oggi , non foss'altro che l'abbandono dei territori montani con la relativa mancata manutenzione del territorio  rischia di condurci in futuro allo stesso modo di fronte ad una recrudescenza dei fenomeni del dissesto idrogeologico. Oggi sarebbe necessaria una grande opera nazionale di difesa dal dissesto idrogeologico: ripristino e \o manutenzione delle sistemazioni di versante, dei sistemi di scolo delle acque ( che consentivano ad un tempo l'irrigazione durante i periodi di secca ed una miglior distribuzione del deflusso delle acque durante gli eventi di piena) , dei paravalanghe e così via. Io credo che uno Stato "vero" ci metterebbe mano in maniera massiccia ( e non aggiungo altro).

L'intervento realizzato ad Ambrella

Escursionisti armati
Per descrivere in maniera esatta l'intervento realizzato ad Ambrella sarebbe necessario avere accesso alle vecchie documentazioni; da quel che ho avuto modo di vedere sul terreno e dai racconti di mio nonno posso ragionevolmente ipotizzare che quel canale detritico andasse incontro a fenomeni di smottamenti e ribaltamento di pietre, sia per la ripidezza che per la natura del versante,  ragione per cui vennero  realizzati una serie di muri di contenimento ed degli interventi di rimboschimento grosso modo lungo tutta la larghezza del valloncello inciso dal rio della Frera.  
Sicuramente vi era anche una discreta pressione di pascolo, che poteva aumentare il rischio di dissesto: mio nonno mi raccontava che il luogo era letteralmente infestato da pulci e zecche, tanto che quando arrivava a casa  se ne ritrovava i pantaloni pieni  e doveva appenderli fuori . Come se non bastasse si trattava di un lavoro faticosissimo: le pietre erano ricavate in loco con punta e scalpello, quindi venivano spostate e posizionate con l'ausilio di  "leve " e "levarin" ( aste di ferro di varia misura utilizzate appunto per smuovere il materiale lapideo)
I muri di contenimento sono ancora lì ed in buone condizioni oggi, ragion per cui possiamo dire che progettista e realizzatori dell'intervento avevano svolto più che bene il loro lavoro.

La discesa a Coste

Prendo una decisione drastica: mi trasformo in cinghiale!
Dall'Ambrella, alla fine della giornata lavorativa, mio nonno ed i suoi compagni scendevano "giù di corsa" direttamente verso il fondovalle, senza perdere tempo a fare il sentiero. Il  mio programma di giornata viceversa prevede, dopo la "pausa pranzo" all'Ambrella, la discesa alle Coste per il sentiero , sia perchè il versante lungo cui scendevano " di corsa"  mio nonno ed i suoi colleghi è ormai diventato in larga parte  un inestricabile noccioleto, sia perchè poco più in basso c'è l'alpe Vailet da visitare, con la sua "cavanna" aggiustata ( che per un periodo di tempo è stata utilizzata dai guardaparco del Gran Paradiso).  Così da Ambrella 1 comincio la discesa verso il Vailet, che da qui non si vede ma si trova appena 100 m di dislivello più in basso, ma sbaglio strada, non trovo il sentiero, ritrovandomi in breve a camminare carponi sotto i noccioli, seguendo due muretti a secco paralleli che sembrano delimitare un percorso ma niente. Altro che dissesto idrogeologico : la frana sono io!!!
Quando capisco di essere ormai sceso troppo ( e non avendo alcuna voglia di fare dietrofront in quelle condizioni di percorso), prendo una decisione drastica: mi trasformo in cinghiale ed inizio a scendere in direzione del rio della Frera, per andare ad incrociare il Gta il prima possibile. Al Vailet non ci sono arrivato, mancando completamente il sentiero che scende alle Coste: pazienza , vorrà dire che mi toccherà tornare.


 Ambrella   dalle Coste ( un anno dopo )


L'alpe Vailet ed il sentiero da Coste

Ci sarebbe un panorama meraviglioso se...
E' finalmente giunta l'ora della rivincita: armato di roncola e forbici potatrici ( come suggerito da Franco Chiapetto )  da Grusiner raggiungo le Coste ( vedi sopra) e quando il sentiero GTA svolta decisamente a destra, in corrispondenza di un grosso masso ( prezioso riferimento suggerito sempre dal  grande Franco ), imbocco verso sinistra un'esile traccia. Quell'esile traccia è il sentiero per il Vailet ( o meglio ciò che ne resta) , largo appena quanto una pista di cinghiali e facilmente confondibile con una di queste, salvo che vi si riesce a camminare in posizione eretta e sono presenti numerosi segni dell'azione della roncola sulla vegetazione circostante.  
Dopo un tratto di dolce salita a mezzacosta,  più o meno in corrispondenza di un minuscolo ruscello ( abbeveratoio per i cinghiali ), il percorso si fa più ripido ed incerto ( forbici potatrici in azione) , anzi: scompare od almeno io lo perdo.  Non vedo più segni di roncola , la vegetazione si fa più invadente : "se è così fino su andiamo bene, ma molto più probabilmente si tratta soltanto di un punto più sporco", penso tra me e me. Mi affido così all'intuito ed al ragionamento: in linea d'aria non dovrei essere molto distante dal Vailet ed   il sentiero deve salire per forza in questo punto.  Così continuo a salire quasi verticalmente tra i noccioli per alcuni metri, superati i quali ho fortuna: ricompaiono i segni dell'azione della roncola, ricompare il sentiero. Tra l'altro se non ci fossero tutti questi arbusti dovrebbe esserci un panorama meraviglioso! 
Vi assicuro che il sentiero c'è, si vede
Ora il sentiero "ritrovato" sale ripidamente con stretti tornanti ed  è abbastanza evidente a livello del terreno, ma la crescita degli arbusti di nocciolo non perdona  e spesso ostruisce il passaggio ( roncola in azione).  Non passa molto tempo che madre natura, probabilmente mossa a compassione dalla mia solitudine, decide di movimentare la situazione con folti e verdeggianti cespugli di ginestre a mò di giungla  e, soprattutto,  di tirarmi su il morale  con il gioco del "gratacul a sopresa":  si tratta di  rose canine ad altezza uomo ,  piazzate a caso lungo il sentiero e ben camuffate tra i rami di nocciolo . Sono momenti bellissimi: graffiarsi con una spina di rosa canina con estrema naturalezza, scambiandola per un nocciolo nel folto della giungla è davvero emozionante, dovreste provare anche voi! Vi assicuro che comunque il sentiero c'è, si vede. La situazione ora è tale che io, riposto definitivamente il bastoncino da trekking che mi ero portato, salgo tenendo in una mano la roncola e nell'altra le forbici potatrici. Marco mani di roncola.
Sono comunque soddisfatto perchè pensavo peggio: sto salendo abbastanza bene, sono quasi arrivato  e... come non detto! Questa volta però  non perdo il sentiero:  è il sentiero ad essere occluso da un muro di vegetazione tra la quale, a dar manforte a gratacui, noccioli e ginestre compaiono anche i prunus spinosa o prugnoli. Qui c'è troppo da pulire, bisognerebbe venire su apposta per farlo: e così, arrangiandomi tra rocce ed ulinnes, riesco a superare in alto a destra questo tratto, giungendo in vista del Vailet.
Mica male la vista dal Vailet ( c'è anche il Ciarforon! )
Anche di qui il panorama non è niente male e paga il biglietto! A monte del Vailet una traccia di sentiero sale, più o meno in direzione della "cavanna" aggiustata, fino a rimontare  una piccola elevazione, raggiunta la quale svoltando a destra ed in leggera salita si raggiunge il primo nucleo di Ambrella, quindi gli altri due gruppi di baite. Dai pressi del terzo gruppo di baite lancio uno sguardo al valloncello del rio della Frera che avevo attraversato l'anno precedente: mai più!
Uno sguardo al valloncello del rio della Frera
Tornerò a ficcare il naso da quelle parti soltanto il giorno in cui avrò messo insieme tutti pezzi del puzzle della traversata Meinardi - Noaschetta bassa , cioè il giorno che andrò per farla!
Consumato il meritato panino, posso finalmente studiare il modo in cui concludere bene la giornata: siccome il tempo è  bellissimo e le temperature sono ottime , una capatina al santuario di S. Anna ci sta, passando dal Gta ovviamente! Sulla carta Mu della valle Orco in realtà  è  segnato anche un sentiero che da "Ambrella 3" scende direttamente a ricongiungersi con il gta nei pressi dell'attraversamento del rio delle Coste , ma immaginando la "qualità" del percorso scarto immediatamente l'idea: ritornare alle Coste senza smarrire il sentiero è già una sfida abbastanza importante. 
Gli splendidi colori dei larici in autunno

Un salto a  S. Anna dei Meinardi.

I Meinardi 
Tornato al Vailet senza particolari problemi, riprendo il sentiero percorso al mattino ( lo perderò in discesa nello stesso punto in cui l'avevo smarrito in salita per poi ritrovarlo, fortunatamente, quasi subito) e arrivo sul Gta, che percorro fino a S. Anna dei Meinardi, accompagnato dagli splendidi colori dei larici in autunno. Dopo una breve pausa e le immancabili foto di rito al santuario, scendo direttamente a Mesonette per Piada e  la cappella di Giet, fino a raggiungere la strada asfaltata ai Nora
Il Santuario di S. Anna
Ora non mi resta che tornare a Grusiner lungo la carrozzabile, passando per Martini, Fey, Giroldi, Bouru, Riva, Bettolino, Fè, lasciando sull'altra sponda dell'Orco Pe dal Ger, Ciampendula, Lilla, Prà Lilla e Prà: una bella carrellata di tutte le borgate del fondovalle! 

Conclusione

Nella stagione giusta ( autunno inoltrato\inverno) l'Ambrella è un posto che vale veramente la pena di visitare, specialmente dopo che la prima neve ha spolverato le cime del gruppo del Gran Paradiso, mentre durante la bella stagione, tra il  caldo e la vegetazione non credo sia il massimo andarci. Ad ogni modo ora sapete come fare, per cui non vi resta che provarci! Alla peggio vi trasformerete in dei cinghiali! Arrivederci ed a presto con le Storie!

martedì 8 novembre 2016

Escursioni non per tutti 6 - Monte Canaussa da Ronco Canavese per Tiglietto, Cima Tavorna, Punta delle Gheule e ritorno per i laghi di Canaussa

Premessa

L'anno scorso, durante una bellissima giornata di fine ottobre,  ero salito da Ronco a Tiglietto per la mulattiera, e di qui avevo proseguito in cresta fino a Cima Tavorna ed alla Punta delle Gheule. Naturalmente l'idea di continuare lungo l'invitante cresta fino al monte Canaussa mi aveva immediatamente sfiorato ma, complice la presenza di neve ed il fatto di essere in solitaria, avevo poi deciso di fare un anello, ritornando a cima Tavorna e  scendendo prima a Pianronc ,poi a Cernisio e quindi raggiungendo Ronco lungo la mulattiera posta sulla sx idrografica del torrente Soana. Quale premio di consolazione per la rinuncia, avevo potuto ammirare i meravigliosi colori  dei boschi in autunno, in particolare quelli di faggio , scattando anche numerose e bellissime fotografie grazie alla perfetta luce delle ore più calde .
Cartina del percorso ( clicca per ingrandire) - elaborazione su Igm 1:25.000 - Portale Cartografico Nazionale
Così qualche giorno fa,  quando  mi ha telefonato l'amico Giuseppe Guglielmetti per chiedermi dove avessi scattato le foto che aveva visto sulla pagina fb Orco Trekking e se riuscivamo a combinare un giro da quelle parti , ci siamo messi subito d'accordo su giorno ed ora, tempo permettendo, per la settimana seguente. Il  programma "minimo" era quello di replicare il giro dell'anno scorso, magari questa volta scendendo dal  vallone di Servino lungo la dorsale che porta al Tor anzichè a Pianronc, per fare delle foto; il programma "massimo" quello di percorrere tutta la cresta fino al monte Canaussa nel caso ci fossero le condizioni giuste. Dal punto di vista della difficoltà questo itinerario va classificato come EE;  il primo tratto da Ronco a Tiglietto può  invece essere classificato come "E" , svolgendosi interamente su ottimo percorso, ed è alla portata di tutti. Da Tiglietto in poi le difficoltà aumentano progressivamente ( EE) , con il sentiero che diventa via via una labile traccia fino a scomparire quasi del tutto dopo la punta delle Gheule; il tratto di cresta per arrivare all'Uja di Tiglietto è molto ripido e richiede particolare attenzione e, se si segue fedelmente il filo di cresta , richiede qualche elementare passo di arrampicata. La discesa lungo il vallone di Canaussa richiede un pò d'attenzione per non smarrire il sentiero, specialmente nella parte iniziale fuori dal bosco.

L'itinerario

Lasciata l'auto in piazza Mistral a Ronco Canavese alle 8,30 del mattino, attraversiamo il ponte in legno sul torrente Soana ed imbocchiamo verso destra l'ampia mulattiera proveniente da Cernisio.
La mulattiera sale nella grande faggeta
Dopo un primo breve tratto nel quale si costeggia il torrente, la mulattiera comincia a salire dolcemente a mezza costa,  sotto la copertura di un'ombrosa pecceta; poi,  assecondando le forme della montagna,  svolta a sinistra, sbucando all'interno della grande faggeta che in questo punto copre senza soluzioni di continuità tutto il versante sx idrografico della valle fino alla frazione Tiglietto ed a Cima Tavorna.  Lungo il percorso si incontrano alcune cappelle votive, che purtroppo non si presentano in buono stato di conservazione. Anche sotto la debole luce del mattino, le sfumature dei colori delle foglie di faggio sono davvero fantastiche. Dopo aver ignorato sulla sinistra la scalinata in pietra con cui ha inizio la Vi dle Guardie , un sentiero un tempo utilizzato dalle guardie forestali per spostarsi più velocemente in quota, si raggiunge con un ultimo tratto in salita la borgata Tiglietto 1275, sbucando fuori dal bosco  nei pressi della chiesa dedicata alla Madonna del Colmetto. Senza raggiungere l'abitato, un sentiero, segnato con tacche rosse un pò sbiadite,  comincia a salire a sinistra della chiesa, re - inoltrandosi immediatamente nel bosco di faggi , seguendo più o meno esattamente la dorsale spartiacque Soana-Canaussa.  Il sentiero prosegue nel bosco fino ad uscirne nei pressi di un traliccio dell'elettrodotto Super-Fènis , posto appena al di sotto della sommità di Cima Tavorna e sopra i pascoli dell'omonimo alpeggio, aprendo alla nostra vista un bellissimo panorama sulle cime circostanti.
Il traliccio posto nei pressi di Cima Tavorna
In particolare è davvero spettacolare osservare alla nostra destra il "mare" di nubi basse che copre la pianura torinese e canavesana, arrivando a lambire l'Arbella e quindi Pont Canavese. Peccato che il traliccio, certamente una grande realizzazione umana dal punto di vista tecnico e del progresso, rovini sotto diverse angolazioni il panorama ( praticamente un pugno in un occhio, diciamocelo).
Da Cima Tavorna la traccia di sentiero, ora più incerta, prosegue più o meno  lungo la cresta ( alcuni affioramenti rocciosi si evitano sul versante Soana ) fin a nei pressi di Punta delle Gheule, giunti al di sotto della quale ci si sposta in versante Soana per aggirare un ultimo tratto più accidentato. Con un' ultima salita su ripido pendio erboso si riguadagna la cresta, da cui in breve  si tocca la croce di vetta, posta sul piccolo torrione che ne costituisce il punto sommitale.  Da questo punto  è finalmente visibile tutta la cresta  e dobbiamo decidere il da farsi: scendere sul vallone di Servino, realizzando un anello e facendo delle bellissime foto alle faggete oppure allungare l'escursione proseguendo fino al Monte Canaussa.  La dorsale appare quasi completamente sgombra da neve , eccezion fatta per l'ultimo tratto, che oltre ad essere un pò imbiancato è  anche decisamente più ripido e roccioso. Dando uno sguardo con il binocolo appare evidente come l'ultimo tratto possa comunque essere evitato sulla destra per un ripido pendio erboso, nel caso si presentasse davvero  ostico, ragion per cui decidiamo di allungare l'escursione.
Panorama da punta delle Gheule

Una traccia di camosci\cacciatori riprende ora fedelmente il filo di cresta , sempre evitando le asperità sul versante Soana\Servino , fino a raggiungere la quota 2259, ove è posto un piccolo ometto in pietra ed è presente quella che ha tutto l'aspetto d'essere una vecchia postazione di caccia. Il panorama da qui in poi si fa ancora più grandioso e si arricchisce con la presenza della "Gran Becca", cioè il Cervino! Pensando alla via del ritorno incominciamo a fare varie ipotesi: scendere su Servino dalla Bora Freida ( ci ero passato un paio di anni prima di ritorno dal Monte del Prà )  , scendere dal vallone di Canaussa...
A quota 2259: 
i resti di una postazione di caccia...
Spunta il Cervino...
Dalla quota 2259 si prosegue, sempre lungo la cresta, fino alla quota 2400 m, posta alla base della prima elevazione del monte Canaussa, che scoprirò poi il giorno seguente da Franco e Blin  che localmente viene chiamata Uja di Tiglietto ( at Tiei), 2423 m. Eh si perché per uno strano caso del destino abbiamo effettuato lo stesso itinerario in giorni diversi ( il venerdì ed il sabato) , quasi come se anche quando non andiamo assieme avessimo sviluppato una sorta di telepatia nel decidere le mete delle nostre escursioni.
Dall'Uja at Tiei uno sguardo alla cresta di salita ( ben visibili la q.2259, Punta delle Gheule e Cima Tavorna

Il grande ometto di quota 2444, più avanti la vetta del Monte Canaussa

"Selfie con triangolino" per Giuseppe in cima al Monte Canaussa
Dalla quota 2400 alla cima dell'Uja at Tiei si affronta la parte più ripida e difficile del percorso, per compiere il quale ci sono due alternative: lungo il filo di cresta per rocce rotte ( necessario ogni tanto aiutarsi con le mani per compiere qualche facile passo d'arrampicata) , oppure aggirandolo sulla destra per un ripido canale erboso; noi abbiamo scelto la prima alternativa in quanto ritenuta più sicura. Dall'Uja at Tiei poi, per larga e comoda cresta sia raggiunge prima la quota 2444, dove è presente un grande ometto di pietre, quindi in breve la sommità del Monte Canaussa 2492 m.
Panorama sul primo, secondo e terzo lago di Canaussa. Sullo sfondo la Quinzeina.

Dalla sommità del monte Canaussa si ritorna per qualche metro sui propri passi, quindi per ripidi pendii erbosi si scende fino a toccare il terzo lago di Canaussa, quota 2216 m ,  dal quale, lungo il sentiero che scende lungo il vallone , poco evidente ma segnalato qua e là da tacche rosse ed ometti, si toccano i primi due laghi e l'alpe Canaussa ( 2117 m ) .  La parte alta del vallone di Canaussa è davvero  selvaggia e magnifica in questa splendida giornata di fine ottobre!
Comunicazione di servizio: appena al di sotto dei primi due laghi abbiamo trovato un sacco a pelo, che abbiamo lasciato in un punto preciso e riparato, poco distante dal luogo di ritrovamento ( se il proprietario\a ci stesse leggendo mi scriva per maggiori informazioni).
Per quanto riguarda il sentiero che risale il vallone di Canaussa , va detto che si tratta di un percorso tradizionalmente difficile da mantenere in ordine: secondo alcuni racconti a me pervenuti già negli anni 60-70 la parte bassa del percorso, fino all'alpe Canaveia , era considerata impraticabile per via della folta vegetazione che vi era cresciuta. Il sentiero è poi stato ripristinato negli anni 90'  ed in seguito sottoposto a periodiche opere di pulizia, ragion per cui oggi risulta praticabile, anche se occorre fare molta attenzione a non smarrire l'esile traccia.
Alpe Canaveia
La discesa continua ora fino all'alpe Canaveia 1874 m , poi più ripidamente, sempre sulla sx idrografica del vallone , fino ai ruderi dell'alpe Revedone 1498 m , dove si attraversa il rio Canaussa e si prosegue a perdere quota toccando altri magnifici boschi di faggio ( fare attenzione a non smarrire la giusta traccia : ad un certo punto infatti si incrocia un traccia  che scende alla frazione Crotto , che occorre ignorare per proseguire in leggera discesa ed a mezzacosta per Tiglietto).
Raggiunte e superate le case di Tiglietto, si imbocca nei pressi della chiesa la mulattiera che scende a Ronco e la si percorre lungo l'itinerario di salita fino a piazza Mistral. Noi ci arriviamo intorno alle 18,30 ( 18,38 per la precisione) , quando comincia a diventare buio e le luci dell'illuminazione pubblica sono già accese: che rabbia pensare che un paese bello come Ronco Canavese d'inverno sia abitato da così poche persone finito il periodo di villeggiatura estivo!
La petite ville Lumière
Ed in futuro chi lo sa ? La scomparsa delle comunità alpine non è un destino ineluttabile: presidio e difesa del territorio dal dissesto idrogeologico, valorizzazione delle attività tradizionali ( selvicoltura, agricoltura, allevamento), telelavoro ( così come l'insegnamento a distanza) , turismo, miglior qualità della vita sono concrete opportunità sulle quali occorre continuare ad investire con convinzione. La Storia, quella con la "S" maiuscola, non finisce con l'attuale ordinamento socio-economico. Arrivederci ed a presto con le Storie!


domenica 30 ottobre 2016

I grandi classici - Gran Paradiso dal rifugio Vittorio Emanuele II

Dove eravamo rimasti ? Al rifugio Vittorio Emanuele II, all'ora di cena : consumato il buono ed abbondante pasto, mentre gustiamo il classico genepy , cominciamo a definire gli ultimi dettagli per il giorno successivo. Il gestore del rifugio ci aveva informato che la via normale dal Vittorio era "chiusa" per via dei crepacci e del ghiaccio duro, ed anche il raccordo con la via del rifugio Chabod era da percorrere con molta attenzione, sempre per via dei crepacci, per cui era consigliabile salire fin nei pressi della schiena d'asino sfruttando la facile via ferrata di recente realizzazione, consiglio a cui abbiamo immediatamente deciso di aderire visto che eravamo tutti dotati della necessaria attrezzatura individuale ( ovvero casco, imbragatura , due moschettoni, cordino - anche se privo di dissipatore di energia). Per parte mia, avendo saputo dal gestore che un gruppo intendeva salire alla Tresenta passando dal colle del Gran Paradiso, mi sono permesso di sconsigliare assolutamente di percorrere quella via in discesa ( e chi ha letto la prima puntata sa bene il perchè).
Si parte presto...
Per quanto riguarda l' orario di partenza non c'è neanche da discutere, poichè questo viene scandito, periodo per periodo, dall'orario in cui è prevista la colazione, nel nostro caso le 5 del mattino e così , dopo un ultimo saluto al paesaggio circostante in veste notturna, andiamo a nanna. Per poter riposare meglio avevamo prenotato una cameretta, ma nonostante questo accorgimento la qualità del sonno si rivelerà pessima , vuoi per il caldo eccessivo presente nella stanza, vuoi per la quota, vuoi per la tensione e l'aspettativa per il giorno seguente, vuoi per i rumori provenienti dal soffitto a qualunque ora ( sopra le camerette c'è infatti il sempre affollato dormitorio che abbiamo evitato).
Ad ogni modo è sempre meglio un alternarsi di sonno e veglia che una notte passata all'addiaccio, a settembre, a 2732 m di quota: nel Parco Nazionale del Gran Paradiso è infatti vietato campeggiare al di fuori delle aree apposite ( sono consentiti unicamente bivacchi di emergenza , e noi non ci trovavamo di certo in una situazione tale ), senza contare il peso che avrebbero raggiunto i nostri zaini!
Alle 4,30 suona la sveglia, ci vestiamo e scendiamo a fare colazione, quindi ci prepariamo alla partenza indossando scarponi , pila frontale ed imbragatura; una ragazza straniera ( non ricordo se di nazionalità svizzera o francese ), alla sua prima salita al Gran Paradiso , ci chiede gentilmente se lei ed il suo amico possono seguirci, visto che specialmente di notte smarrire la giusta traccia è un attimo, cosa a cui noi acconsentiamo senza problemi.
Il gruppo del Monte Bianco fa capolino allo spuntare dell'alba
Le   temperature sono davvero piacevoli e superiori alla media del  periodo; le pile frontali che illuminano la notte procedendo incolonnate lungo il percorso che conduce al raccordo con la via dello Chabod ed alla ferrata ( sito sulla dorsale che scende dalla Schiena d'Asino e divide i due bacini del ghiacciaio del Gran Paradiso e del ghiacciaio di Laveciau), nel generale silenzio ispirato dall'oscurità, fanno sembrare questo serpente umano una  processione religiosa, una marcia di spiriti desiderosi di omaggiare la dea Montagna ( anche se, come avremo modo di vedere nel prosieguo, qualcuno è soprattutto smanioso di conquistarla ad ogni costo).
Uno sguardo verso la Grivola 3969 m: chissà che prima o poi...
Se   devo essere sincero, in partenza non mi sento troppo in forma: inizialmente rimango appena indietro; raggiunti i compagni  tengo il loro passo ma con una fatica per me insolita , sento il fiato un pò corto e, a differenza del giorno precedente, non faccio mai l'andatura. Ed è così che nella mia mente iniziano a sorgere delle preoccupazioni: e se fossi incappato in una giornata no? Questa sensazione di fatica è dovuta alla quota e prelude ad un potenziale mal di montagna ? Il punto centrale è che non voglio assolutamente che la cordata rinunci per causa mia, ragion per cui decido, dopo lunga riflessione, di valutare la mia condizione fisica al termine della ferrata. E' infatti molto rischioso, per via dei crepacci, affrontare da solo un ghiacciaio, per giunta con problemi di forma fisica, per cui non potrei assolutamente fare ritorno da solo ( in caso di mal di montagna è infatti fondamentale abbassarsi di quota il più velocemente possibile).

La tormentata superficie del ghiacciaio di Laveciau: molto meglio fare la ferrata...
Chi però davvero non ce la fa a tenere il nostro passo ( un passo assolutamente normale per la verità) è l'amico della ragazza e noi non possiamo rallentare eccessivamente la nostra andatura per un perfetto sconosciuto, specialmente ora che si sta facendo giorno e siamo praticamente arrivati alla partenza della ferrata. La ragazza ci chiede quindi di aspettare solo un attimo per parlare con il suo amico, sorprendendoci poi con una decisione a mio giudizio discutibile sotto molti punti di vista: lasciare lì il compagno d'avventura e proseguire da sola, visto che noi non possiamo certo pensare di fare una cordata di 5 persone soltanto per il bel volto di una sconosciuta - si tratta in effetti di una ragazza a cui dal punto di vista estetico e fisico non manca nulla.
Caratteristiche della ferrata ( fonte: www.gulliver.it) 

La ragazza ci chiede quindi se le convenga fare la ferrata e ci mostra la sua attrezzatura: a dire il vero secondo Luca il suo cordino è un pò corto, potrebbe avere qualche difficoltà, ma basta dare uno sguardo di sotto ed osservare  la tormentata superficie del ghiacciaio di Laveciau per consigliarle di provare comunque la ferrata.
Questa via ferrata, realizzata nel 2012, percorre la dorsale rocciosa che partendo dalla Schiena d'Asino scende fino alla Testa di Moncorvè 2864 m. Per me si tratta della prima ferrata, ma la cosa non mi preoccupa troppo perchè si tratta di vie dotate di corde fisse e comodi appigli artificiali, ragion per cui  l'essenziale è ricordarsi di avere sempre almeno un moschettone attaccato alla corda. Inoltre questa ferrata è abbastanza semplice, evidentemente destinata  al "grande pubblico": non ci sono molti punti in cui è richiesta la forza delle braccia per progredire (  solo il mio cordino da ghiaccio si rivelerà un pò corto in certi punti), è molto aerea ma a me, che non soffro di vertigini o sindromi simili, non dà assolutamente fastidio guardare verso il basso per ammirare l'ambiente glaciale circostante , anzi lo faccio con un certo gusto poichè, essendo assicurato, non rischio certo di finire di sotto.  Alla luce di tutto questo risulta curiosa la classificazione apposta sul cartello, ED - estremamente difficile, che obiettivamente sovrastima decisamente il livello di difficoltà ( anche se la presenza di neve e\o ghiaccio lungo il percorso può farlo variare sensibilmente - noi ne abbiamo trovata pochissima). Finito il percorso attrezzato comincia  il ghiacciaio e bisogna legarsi;  io comincio a sentirmi decisamente meglio ed il mio dilemma interiore, se proseguire o meno,  neanche si pone: bisogna provare il Gran Paradiso!
Particolare della ferrata ( fonte: www.gulliver.it) 
La   via ferrata raggiunge il ghiacciaio superiore nei pressi della celebre Schiena d'Asino 3700 m , ultimo dosso  prima della parte finale del percorso, nonchè il tratto più ripido del ghiacciaio; qualcuno dice che viene chiamata così perchè per essa venne condotto molto tempo fa un asino. A questo punto ci leghiamo, formando la cordata: primo Luca ed ultimo Stefano, quelli con più esperienza di ghiacciaio; in mezzo io secondo e Michele terzo, legati molto lunghi ( a 10 -12 m l'uno dall'altro, come ci aveva consigliato la guida alpina Stefano dalla Gasperina.
Luca scandisce un'ottima andatura , che riesco a seguire senza troppi problemi; ad un certo punto mi giro verso il Ciarforon e, sorpresa, mi rendo conto di essere più in alto di quella vetta. Non solo: essendo fino ad ora la maggior quota da me toccata quella del Rocciamelone ( 3538 m), sono in alto come non lo sono mai stato in tutta la mia vita!
Più in alto del Ciarforon
Un  misto di euforia ed emozione mi pervade, quando mi ricordo che mancano ancora almeno 300 metri di dislivello e sarà fondamentale mantenere la concentrazione sino in cima, ragion per cui mi ricompongo immediatamente e li per lì adotto un'efficace strategia per diminuire stress e fatica:  mi concentro sull'andatura, in particolare sul passo di chi mi precede, senza pensare ad altro, evitando di guardarmi continuamente intorno. Infatti, come già ho spiegato poco sopra, non sono mai stato così in alto e "as sa mai".
Lungo la salita attraversiamo vari crepacci su ponti di ghiaccio ( fortunatamente tanto solidi da reggere tutti i salitori di giornata) ; ad ogni crepaccio rallentiamo l'andatura e  lo superiamo con cautela, passando  uno alla volta. Un'altra cosa  importante a cui facciamo molta attenzione è quella di avere la corda sempre sufficientemente tesa, requisito fondamentale per prevenire\limitare i danni e riuscire a fare un minimo di sicurezza nel caso che qualcuno di noi rischi di cadere in un crepaccio, perchè "as sa mai".
E' molto importante avere cura che la corda sia sempre sufficientemente tesa ( in alto a destra i torrioni della becca di Moncorvè) 
Nel frattempo, un passo dopo l'altro, arriviamo alla base della crepaccia terminale, che in questi giorni si presenta in condizioni tali da renderla assolutamente non banale. Il gestore del rifugio aveva consigliato l'utilizzo di un chiodo da ghiaccio, che noi purtroppo non abbiamo, ragion per cui dobbiamo aggiustarci facendoci sicurezza l'un l'altro piantando la picozza e controllando la corda di chi ci precede. Proprio mentre ci stiamo organizzando per affrontare la crepaccia chi si rivede? Ma naturalmente la nostra amica , che sta scendendo bella bella da sola a tutta birra ( già al mattino si vedeva che andava come una spia) , unica salitrice non legata di giornata ( e saranno salite quasi 100 persone quel giorno!). " Oh, so finally you arrived! Slowly, eh ? ( risatina) "
Si si, penso, saremo anche saliti "slowly ", ma tu, sola e slegata, se per disgrazia cadi in un crepaccio ed hai la fortuna di sopravvivere e di non farti male, mi spieghi come fanno a tirarti su , come fai ad aiutare chi dovrà tirarti fuori dai pasticci ?
Risposta: "Yes. Did you have choosed the ferrata or the glacier to go up ? " "The ferrata". Alla faccia dell'attrezzatura e del suo peso, penso.
Preparativi per superare la crepaccia terminale



Ad  ogni modo noi ora abbiamo ben altro a cui pensare: la salita della crepaccia terminale è davvero emozionante perchè avviene su ghiaccio quasi verticale ( tanto che dobbiamo salire muovendo un arto per volta,piantando la picozza e poi spostando prima un rampone e poi l'altro). Per fortuna la consistenza del ghiaccio è ideale, e nel punto in cui attraversiamo vi è anche un solido ponte di ghiaccio, sul quale certo non ci si mette a ballare, ma che comunque dà sicurezza.
Lo spettacolo è grandioso...
Una volta superata la crepaccia terminale, in breve raggiungiamo l'antecima e lo spettacolo si fa ancor più grandioso: alla nostra sinistra vi è la cima con la statua della Madonnina , il 4061 effettivo;  ma per me, che sono un laico e soprattutto non sono un fanatico del raggiungimento dei punti sommitali , va benissimo osservarla a breve distanza, dedicandole un sentito ringraziamento ed una preghiera per la felice riuscita dell'ascensione.  A dirla tutta nella mia decisione di rinunciare a raggiungere la Madonnina ( non posso negare che in fondo in fondo mi sarebbe piaciuto farlo )   sono intervenuti anche fattori esogeni, quali l'incontro con un paio di cordate diciamo "maleducate" che tentavano il sorpasso nei pressi della crepaccia terminale ( c'è sempre chi ha una fretta del diavolo per arrivare ... alla Madonnina). Il brutto di andare in un luogo così frequentato come il Gran Paradiso è quello che si incontrano anche molti "conquistadores" : ma l'importanza della meta, la bellezza dei luoghi e del panorama sono tali da non poter lasciare il campo libero a potenziali sterminatori di amerindi. Del resto ad essere fondamentali sono i tuoi compagni d'avventura e quelli, grazie a Dio, possiamo ancora sceglierli oculatamente.
Panorama verso il Taou Blanc ed il ghiacciaio dell'Aouille
Ultima avventura di giornata è il superare in discesa la crepaccia terminale, cosa che occorre fare nello stesso modo in cui si è salita, ovvero faccia a monte. Mentre Luca con l'ausilio di corda e picozza cerca di fare un minimo di sicurezza in alto, scendono prima Stefano  ( il quale appena arriva dall'altra parte realizza una sosta) ed a breve distanza Michele, quindi io e Luca. Direi che scendere un muro di ghiaccio quasi verticale in   "piolet traction"  ( credo) sia stato un bel battesimo del ghiaccio per chi scrive e vi assicuro che emozione ed adrenalina non sono mancate!
Discesa lungo la comoda mulattiera
E così, nonostante qualche lamentela e qualche esclamazione ( naturalmente da parte mia) , anche quest'ultimo ostacolo  è superato: ora non ci resta che tornare al rifugio per la stessa via di salita , ripercorrendo quindi anche la ferrata. Mentre siamo sulla ferrata il tempo cambia e comincia a piovigginare, ma davvero di freddo non si può parlare; finito il percorso attrezzato non ci resta che seguire i numerosi ometti fino al rifugio. Ecco, gli ometti sono talmente numerosi che ci si perde, tanto che non sarebbe così sbagliato pensare di demolirne la maggior parte, lasciando quelli buoni e mettendo un locale "divieto di costruzione". Ad un certo punto mi stufo,  non ne posso più di tutti questi ometti fatti a caso ( la pura verità) ed inizio a scendere come pare a me , abbandonando la dorsale e cominciando a scendere decisamente nel vallone del ghiacciaio del Gran Paradiso che adduce al rifugio Vittorio. I miei compagni di gita sono un pò perplessi (effettivamente in alcuni punti sarà necessario scegliere bene il passaggio onde evitare inutili diversioni e risalite aggiuntive), ma infine arriviamo al rifugio, dove ci concediamo una meritata birra ristoratrice, sorbita la quale riprendiamo il materiale lasciato nella cameretta e cominciamo a scendere verso Pont Valsavarenche lungo l'ampia mulattiera , sempre sotto lo sguardo benevolo della Becca di Monciair e dei Denti del Broglio.
Arrivo a Pont Valsavarenche: sullo sfondo, da sx: Becca di Monciair, Denti del Broglio,  gh.io del Gran Etret, Punta Fourà
Sarà la stanchezza , sarà il desiderio di arrivare al più presto alle rispettive case per godere il meritato riposo, ma quest'ultima parte del percorso è quella che troviamo più lunga, con le sue infinite svolte e tornanti. L'ansia del ritorno non arresta però la nostra fantasia: "l'anno prossimo a giugno potremmo venire su due giorni e fare la Tresenta e la Becca di Monciair";  in fondo a sinistra comincia ad intravedersi il ghiacciaio del Gran Etret con il soprastante ed omonimo colle, una delle ipotesi che avevamo valutato per traversare dalla valle Orco alla Valsavarenche: "perchè non tornare l'anno prossimo ma da quel valico" ? Vedremo, vedremo... intanto io il giorno seguente, giusto per non perdere il vizio e per rilassarmi un pò con una passeggiata defatigante, su invito di mia cugina mi sono prenotato per il giro delle frazioni del vallone del Roc, con tanto di colazione a Balmarossa, aperitivo alle Capelle e polentata a Pianchette! E chi se lo perde ?  Sapete cosa sospetto ? Penso di aver ormai sviluppato una forma cronica di dipendenza: sono un montagna-dipendente! Aiutatemi! Arrivederci ed a presto con le Storie!




domenica 2 ottobre 2016

Escursioni d'altri tempi - traversata da Noasca al Rifugio Vittorio Emanuele II per il colle del Gran Paradiso dal vallone di Goui o di Goi

Premessa

Non ero mai stato sul Gran Paradiso prima: vuoi perché sono un semplice escursionista , vuoi perché l'idea di trovarmi in cima assieme a molte altre persone non mi esaltava, vuoi per una sorta di timore reverenziale verso l'unico 4000 completamente in territorio italiano, che sarebbe stato a tutti gli effetti il mio primo 4000.
La mitica guida del Cai-Tci
Tuttavia l'idea dell'amico Luca  ( che sul Grampa c'era già stato) di tornarci passando dalla nostra parte ( valle Orco) a settembre , magari partendo da Noasca, mi ha trovato immediatamente concorde. Ovviamente la sua proposta non era quella di affrontare la mitica via Vaccarone ( decisamente al di sopra delle mie capacità), ma di fare  il primo giorno la traversata al rifugio Vittorio Emanuele per il colle del Gran Paradiso, ed il secondo giorno salire in cima. Era infatti da tempo che avevo nel mirino di salire al colle del Gran Paradiso, se non altro per salire fino in fondo all'amato vallone di Noaschetta: era decisamente un'offerta che non si poteva rifiutare.
Nella storica guida del Cai-Tci il colle del Gran Paradiso viene descritto come "facile e frequentatissimo valico" ma, come avremo modo di raccontare, le condizioni odierne sono molto diverse rispetto a quei tempi e la zona non è esattamente "frequentatissima".
In questo articolo descriverò la traversata, senza dilungarmi eccessivamente sulla descrizione del vallone di Noaschetta, del quale ho già parlato diffusamente qui  , per concentrarmi sulla descrizione dell'itinerario ( riportando in corsivo quello già caricato - sempre dal sottoscritto - su Gulliver ) e delle nostre sensazioni. Oltre a me e Luca, alla spedizione ( termine davvero non esagerato ) ha preso parte anche l'amico Michele mentre Stefano, per motivi di lavoro, ci ha raggiunti direttamente al rifugio Vittorio Emanuele II.


L'itinerario

Sono circa le sei e un quarto del mattino quando, raggiunta  in auto  Balmarossa superiore ( frazione di Noasca),  parcheggiamo l'auto ed indossiamo zaino e pila frontale. Gli zaini sono abbastanza pesanti poiché,  oltre alla necessaria quantità di cibo, bevande, vestiario, materiale di primo soccorso per sopravvivere due giorni in montagna,  abbiamo con noi anche tutta l'attrezzatura  necessaria per la salita al Gran Paradiso prevista per il giorno successivo: casco, imbragatura, piccozza, ramponi, moschettoni, cordino da ghiaccio; Luca ha inoltre con sé una corda da 20 metri ( che non si sa mai), mentre quella da 60 metri, che peserà almeno tre kg, l'abbiamo affidata a Stefano, che ci raggiungerà la sera al Vittorio Emanuele. Anche la corda da 20 metri pesa comunque un bel chilo, ed ogni chilo in più lo senti quando devi camminare per tanti km  ( non sappiamo di preciso, ma saranno sicuramente più di  20) con quelli che sulla carta sono 1945 metri di dislivello positivo, ma Luca la trasporterà stoicamente per tutta la giornata senza lamentarsi e rifiutando gentilmente qualunque proposta di cambio.

"Dalla piazzetta alla fine della strada asfaltata scendere a destra (indicazioni per il rifugio Noaschetta) ed attraversare il torrente Ciamosseretto su di una passerella in legno; il sentiero sale ora in un bosco di conifere, fino ad immettersi nel sentiero che da Noasca sale al Gran Piano (bivio, prendere la diramazione in salita)."

La borgata Sassa di notte
E' sempre emozionante cominciare a camminare anticipando l'alba; questa poi è una notte serena, la temperatura è ottima e siamo tutti molto "presi bene" al pensiero della splendida due giorni che ci aspetta, ragion per cui saliamo in allegria, con intenso chiacchiericcio ma con passo regolare: dobbiamo dosare le energie, perché si, oggi è la giornata più lunga, ma domani c'è la quota, e quella non perdona e sappiamo bene che una stanchezza eccessiva può favorire l'insorgere dei sintomi del mal di montagna anche in soggetti che normalmente non ne soffrono.

"Al bivio successivo scendere a destra per imboccare il sentiero attrezzato "corto" ( facile) per il rifugio Noaschetta il quale, superando tramite cenge alcune pareti rocciose, conduce in breve nei pressi di un piccolo bosco di betulle visibile alla vostra destra; senza raggiungerlo continuare a salire ignorando la diramazione di destra per il rifugio."

Le Levanne all'alba

A dirla tutta abbiamo un altro ottimo motivo per dosare le energie, e cioè l'idea di salire, in caso condizioni di visibilità ed orologio lo consentano, dal colle del Gran Paradiso fino alla Tresenta per la cresta NNE, per poi scendere dal versante nord direttamente sul rifugio Vittorio Emanuele .  Quando mai ci ricapiterà di averla così a tiro? Questa è anche la ragione per la quale abbiamo scelto di raggiungere il colle non passando dal bivacco Ivrea e dunque dal vallone del Gias della Losa ( itinerario relativamente più frequentato)  ma dal vallone di Goui, in quanto percorso più veloce e diretto e ghiotta occasione, almeno per il sottoscritto, di ficcare il naso in un angolo ancora sconosciuto.
Il giorno appare e la notte scompare mentre percorriamo il sentiero attrezzato, reso oggi davvero facile grazie al grande lavoro di manutenzione e miglioria portato avanti negli anni dal Cai di Rivarolo Canavese.

"Dopo aver superato una pietraia, il sentiero va a congiungersi con la mulattiera per l'alpe Bruna ( indicazioni per il Bivacco Ivrea) che passa al di sopra del rifugio Noaschetta, raggiungendo dapprima il casotto Pngp dell'alpe Arculà, poi i pianori dell'alpe Bruna e dell'alpe Bruna superiore fino ad arrivare ai bordi del lungo pian di Goi."

Il sole spunta dalla bocchetta di Drosa

Mentre saliamo verso l'Arculà il sole, come sempre, comincia  a fare capolino dalla bocchetta di Drosa e Luca, che ha un pò il "mal della pietra" ( nel senso che è appassionato di arrampicata), non può fare a meno di notare le imponenti pareti del Monte Castello; quando poi dal casotto Pngp, dopo una breve pausa ristoratrice e di rifornimento idrico, proseguiamo verso la Bruna, saranno le rossastre ed imponenti Torri del Blanc Giuir a catturare la sua attenzione. Purtroppo, prima sfortuna di giornata, non facciamo in tempo ad arrivare in vista dei pianori della Bruna, laddove comincia lo spettacolo dello splendido colpo d'occhio offerto dal versante sud del gruppo del Gran Paradiso,  che delle nuvole basse lo coprono, privandoci del piacere e del sollievo che ne derivano ( quando c'è un bel panorama si cammina più volentieri e si sente meno la fatica...forse).
Le Torri del Blanc Giuir incombono sui pianori della Bruna inferiore

"Arrivati a questo punto occorre abbandonare la traccia per il bivacco Ivrea e costeggiare il lungo pianoro sulla destra idrografica percorrendo i resti della mulattiera reale di caccia.
Verso la fine del pianoro la mulattiera comincia a salire verso destra arrivando con alcune svolte nella conca del piccolo laghetto di Goi.
Senza raggiungere il lago ( che lascia alla sua destra), la mulattiera attraversa un piccolo torrente e comincia a risalire la morena frontale del ghiacciaio di Goi, sul versante destro idrografico del vallone, dove si perde."

Il lungo pian di Goi in versione tardoestiva
Come quando Sam nel Signore degli Anelli si ferma e dice a Frodo, più o meno, " non sono mai stato così lontano da casa", così io dico agli altri : " non sono mai stato oltre il lago di Goi". In me però, a differenza del co-protagonista del celebre romanzo,  non vi è alcuna traccia di tristezza o paura,anzi: mi sento come un bambino che hanno portato al negozio di giocattoli! Va detto però che gli Hobbit avevano alle calcagna i  Nazgul e chissà quali altre oscure creature che li volevano catturare \ uccidere e noi no.
La conca ove  si trova il piccolo lago di Goi
E' proprio nei pressi del piccolo lago di Goi che ci concediamo un'altra breve pausa ristoratrice, consapevoli del fatto che da qui in poi non ci sarà più alcuna traccia da seguire, forse solo qualche raro ometto. Risaliti i resti della mulattiera reale fino al suo termine, salutiamo gli ultimi lembi di "verde" per proseguire fino alla sommità della morena frontale del ghiacciaio di Goi, dove troveremo un ometto, che sarà anche l'ultimo sul versante piemontese. Qui il paesaggio cambia radicalmente: ci troviamo ora in un ambiente prettamente roccioso, punteggiato qua e là dalla massiccia fioritura di Adenostyles leucophylla, volgarmente detta cavolaccio lanoso e dalla presenza di altre specie vegetali del piano nivale, ormai in grado di colonizzare queste superfici  da decenni abbandonate dal ghiacciaio di Goi, che un tempo le occupava completamente ,  risultando di fatto senza soluzioni di continuità rispetto al soprastante ghiacciaio di Noaschetta.
L'ambiente cambia. In primo piano: fioritura di Adenostyles leucophylla
Il vallone in questo punto si restringe decisamente,  chiuso alla nostra sinistra dalle imponenti pareti della cresta divisoria Noaschetta -Ciamousseretto, che origina dalla Tresenta, ed alla nostra destra dalla spartiacque Goui-Gias della Losa. che origina dalla Punta Ceresole
Man mano che saliamo, ad intermittenza le nubi lasciano intravedere più o meno completamente la forma triangolare della Tresenta, sempre più vicina, mentre ancora non è visibile il colle, decisamente più spostato sulla destra. 
La vegetazione scompare, mentre sulla nostra sinistra diventano visibili i resti del ghiacciaio di Goi, oggi ridotto ad una stretta lingua a ridosso dello spartiacque Noaschetta-Ciamosseretto; qua è là sono presenti nevai di varie dimensioni e non è raro constatare la presenza, al di sotto di pietre e massi, di vero e proprio ghiaccio nero, mentre al centro del vallone continua a scorrere impetuoso il torrente principale.
L'assenza di ometti e di qualunque traccia di passaggio,  l'aspetto severo e primordiale dell'ambiente circostante, sono la prova inconfutabile che ormai da queste parti raramente l'uomo mette piede ( salvo forse i guardaparco dell'Arculà). 
Le nubi basse  vanno e vengono   e, come in un gioco di prestigio, ci mostrano e ci nascondono l'azzurro intenso del cielo e le cime circostanti, riducendo la visibilità ed aumentando l'alone di mistero e di incognito che sembrano pervadere tutto ciò che ci circonda.
La consapevolezza di procedere in un ambiente dimenticato e profondamente mutato rispetto alle vecchie relazioni alpinistiche che lo descrivevano è particolarmente stimolante e ci fa sentire come degli esploratori di fronte ad un territorio vergine , completamente liberi di scegliere la nostra strada e, onori ed oneri, pienamente responsabili della riuscita della traversata
La vegetazione scompare e la Tresenta ad intermittenza

"Continuare a salire sulla sx idrografica del vallone di Goi fino ad una quota di 3050 m circa; arrivati a questo punto occorre attraversare il rio centrale per superare con alcune svolte, prima a destra, poi a sinistra, infine di nuovo verso destra e sempre sulla dx idrografica del vallone un sistema di piccole pareti rocciose che sembra sbarrare il passo (la traccia segnata sulla cartina MU in questo tratto è approssimativa - errata a giudizio di chi scrive). Anche la traccia indicata sulla vecchia cartina 1:25.000 dell'Igm, con ogni probabilità retaggio del tempo in cui queste superfici erano occupate dal ghiacciaio, è poco verosimile nelle condizioni odierne."


Ci siamo solo noi e la montagna, ed ecco che la montagna ci mette per la prima volta seriamente alla prova: arrivati ad una quota di 3050 m circa ci troviamo di fronte ad un bel rebus: a sinistra come a destra pareti di roccia di varia altezza sembrano sbarrare il passo, e l'unica possibilità di salita sembra essere quella di costeggiare ripidamente le pareti della divisoria Noaschetta-Ciamosseretto per  poi raggiungere i resti del ghiacciaio di Goi. Si tratta tuttavia di una soluzione che scartiamo subito, e questo per almeno tre motivi: il pericolo di caduta pietre, la ripidezza del percorso e la più che probabile presenza di ghiaccio nero nascosto.
Un bel rebus...

















A questo punto Luca, che come abbiamo detto soffre di "mal della pietra" , propone di andare ad osservare più da vicino le pareti rocciose poste in alto sulla nostra destra, che paiono di roccia migliore e potrebbero essere una via d'uscita nel caso fossero superabili con elementare arrampicata. Arrivati ai piedi delle suddette pareti, mentre studiamo il da farsi, ecco che rivolgendo nuovamente lo sguardo sulla dx idrografica del vallone diventa chiaramente visibile la soluzione del rebus , a dimostrazione del fatto che  in montagna è sempre molto utile poter osservare le cose dell'alto.
Ritorniamo così sui nostri passi e intraprendiamo esattamente il percorso appena individuato a distanza con successo...

La soluzione del rebus

"Giunti al ripiano superiore, continuare a salire per pietre e sfasciumi a modesta pendenza in direzione dell'evidente depressione occupata dal colle, ai piedi della becca di Moncorvè, lasciando in basso a destra il piccolo ghiacciaio occidentale di Noaschetta, al cui bordo meridionale è presente un piccolo lago di fusione."

Il ghiacciaio occidentale di Noaschetta con il piccolo lago di fusione

Finalmente al colle del Gran Paradiso
E così siamo arrivati a metà del lavoro: abbiamo raggiunto il colle del Gran Paradiso, 3345 m , dominato ad ovest dalla Tresenta ed ad est dalle pareti della becca di Moncorvè. Orologio e visibilità non ci consentono di salire  la Tresenta, ragion per cui decidiamo di pranzare con calma sul colle, onde poter meglio affrontare la discesa che sappiamo essere non banale, come ci aveva spiegato la guida alpina Stefano dalla Gasperina. Dal colle si gode davvero di un ottimo panorama ( benché oggi si presenti disturbato dalle nuvole)  sulle montagne circostanti, ed in particolare su quelle della Valsavarenche e della Val di Rhemes; e  riconoscere tra queste il Taou Blanc, il ghiacciaio dell'Aouille la Basei, la cime d'Entrelor  e via discorrendo, a noi così famigliari , è un vero piacere, è quasi come sentirci al Nivolet, a due passi da casa.
Panorama dal colle verso Valsavarenche e Val di Rhemes
Mentre mangiamo cominciamo ad osservare la discesa che ci aspetta ed i primi metri sembrano incoraggianti: ripidi ma solcati dagli stretti tornanti di una traccia ( "incredibile, una traccia! evidentemente dal versante valdostano il colle è più frequentato") . Peccato che appena più in basso il pendio "scompaia": di sicuro ci sarà un cambio di pendenza od un piccolo salto, ma se c'è una traccia siamo a cavallo. In ogni caso è inutile fasciarsi la testa anzitempo, visto che da lì dovremo pur scendere in qualche modo: "non basta guardare, bisogna andare" !

"Dal colle scendere direttamente per ripidi sfasciumi lungo una piccola traccia che dopo pochi metri di dislivello ed alcune svolte si perde in corrispondenza di un marcato cambio di pendenza, dove inizia la parte più delicata del percorso, circa 40 metri di dislivello di sfasciumi ripidissimi ed instabili.
Per superare questo tratto occorre scendere con estrema attenzione, sfruttando gli affioramenti rocciosi presenti ed i massi stabili; questo tratto è soggetto a continuo rimaneggiamento a causa della caduta di terra e pietre; valutare la possibilità di fare una calata."

In questa foto sono ben evidenti il cambio di pendenza ed i resti del ghiacciaio di Moncorvè

E così, dopo alcune svolte, eccolo lì servito il "cambio di pendenza": un muro quasi verticale di sfasciumi instabili, che cominciamo a scendere con la massima cautela, procedendo molto lentamente e saggiando attentamente ogni tratto del percorso, ogni masso, spostandoci ora verso destra, ora verso sinistra, in qualche caso anche costretti a tornare sui nostri passi per cambiare il percorso di discesa.
Continuiamo ad essere soli, noi e la montagna: solo una femmina di stambecco ci osserva incuriosita dalla cresta della Tresenta , mentre per la seconda volta le nostre capacità saranno messe a dura prova.
Arrivato agli ultimi metri del muro mi blocco, non riesco a trovare un punto nel quale scendere sentendomi sicuro: provo a sinistra, a destra ed al centro ma ogni volta faccio dietrofront tornando al precedente punto di "sosta".  E' davvero sconfortante trovarsi in una simile impasse quando ormai manca poco all'obiettivo!
Per fortuna Luca riesce a trovare una soluzione, una chiave ed arriva al termine del "muro" ma io, ancora un pò suggestionato dai precedenti fallimenti, non riesco immediatamente a seguire le sue orme e lascio passare prima Michele, che scende senza particolari problemi, dopodiché anch'io riesco finalmente a convincermi che quello è il percorso più semplice ed a lasciarmi un pò andare.
Non facciamo in tempo a tirare un sospiro di sollievo che ci ritroviamo di fronte ad una terza prova, sempre soli, noi e la montagna.

"Pochi metri più in basso si raggiungono i resti del ghiacciaio di Moncorvè, che a fine stagione richiedono l'utilizzo di ramponi e piccozza, seppur per un breve tratto."
Salve, Ciarforon!

L'asettica descrizione che ho messo su Gulliver non rende bene l'idea delle particolari condizioni che abbiamo trovato quel giorno:  ghiaccio nero durissimo,  con tanto di crepaccia terminale impossibile  da valutare a distanza. 
E così ci tocca calzare i ramponi; io e Michele, a differenza di Luca,  per maggior sicurezza decidiamo di usare anche la piccozza, ma sarà una sicurezza più psicologica che altro, visto che il ghiaccio è talmente duro che soltanto i ramponi tengono , mentre la picca non si riesce assolutamente a piantare!
In fondo a destra, in direzione becca di Moncorvè, la crepaccia terminale si restringe fin quasi a scomparire, ragion per cui Luca inizia un traverso in quella direzione sui resti del ghiacciaio e noi lo seguiamo a ruota. Si tratta di un traverso breve ma faticosissimo, con i muscoli delle gambe tesi allo spasmo per mantenere l'equilibrio, legato alla piccola presa che i ramponi riescono ad avere sul durissimo ghiaccio. Procedendo con estrema attenzione ed avendo cura di evitare i punti più ripidi e\o dove il ghiaccio è praticamente vetro , riusciamo infine a portarci nella morena sottostante i resti del ghiacciaio. Ormai è fatta:  non ci resta che scendere fino a raccordarci alla traccia che sale dal rifugio Vittorio alla Tresenta lungo la frequentata parete N, la via normale.

"Togliere i ramponi e scendere lungo il vallone fino ad incrociare la traccia della normale della Tresenta e seguirla fino al rifugio Vittorio Emanuele seguendo i numerosi ometti".

Salve, Becca di Monciair! 
E così noi facciamo. Mentre scendiamo, ormai passeggiando, ometto per ometto, io emetto una drastica sentenza per quel che  mi riguarda: "In montagna si va per divertirsi, non per patire le pene dell'inferno. L'alpinismo non fa per me: lunedì vendo tutta l'attrezzatura".
Quando ormai manca poco al rifugio si schiude davanti a noi lo spettacolo del Ciarforon e della Becca di Monciair e dei Denti del Broglio, poi finalmente arriviamo, giusto 5 minuti prima di Stefano, salito nel pomeriggio da Pont Valsavarenche: "siete arrivati solo adesso ?" "Si" "Miseria!". Eh si, perché alla fine il gps è chiaro: 23 km e 2300 m di dislivello, di cui almeno 700-800 assolutamente non banali, almeno non a fine stagione.
Finalmente il rifugio Vittorio Emanuele II
Così, ancor prima di posare l'attrezzatura e di prendere possesso della stanza, ci gustiamo 4 meritate birre bionde ( medie, naturalmente) nel "dehor" del rifugio. Mentre ricostruiamo a mente fredda gli eventi della giornata, a Stefano sorgono spontanei alcuni interrogativi : "Luca, la rifaresti? " "mmm non so"  " Michele? " "mmm ,," "Marco ? " " mmm non so... si... cioè Luca, se me lo chiedi tu torno altre cento volte, è stata davvero una bella esperienza" " Ma Luca non te lo chiederà, quindi..." " E chi lo sa...magari in un'altra stagione, con un pò di neve a scendere dal colle".
E giocoforza mi viene chiesto conto della mia precedente, drastica sentenza: "allora, vendi l'attrezzatura? " " Mmm, mah ,aspettiamo domani al Gran Paradiso a vedere come va" "Aaaah !"
Si  è ormai  fatta ora di cena, ragion per cui andiamo a posare l'attrezzatura ed a prendere possesso della stanza: domani mattina ci aspetta il Gran Paradiso.
Ma di questo parleremo  in una prossima puntata! Arrivederci ed a presto con le Storie!